Descrizione
Migliaia di persone, turisti, appassionati di serpenti e fotografi arrivano a il 1° maggio a Cocullo (AQ) , piccolo borgo medievale, in occasione della festa di San Domenico, monaco e abate benedettino, protettore dai morsi dei serpenti, dalle febbri, dalla rabbia che nel X secolo sgomberò i campi locali infestati.
Intorno a Cocullo, il 19 marzo, i “serpari” o cacciatori o incantatori, iniziano a catturare i serpenti locali rendendoli innocui per esporli durante la processione nella quale sarà protagonista la statua lignea di San Domenico, prelevata dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie, drappeggiata di serpenti vivi, per le vie del paese, seguita dai Serpari, anch'essi drappeggiati di serpenti. San Domenico nel lasciare Cocullo lasciò un suo dente molare e un ferro della sua mula come protezione per gli abitanti dagli animali rabbiosi e velenosi di cui quel territorio era pieno ed è grande è lo smercio durante la festa di laccetti, medaglie, corone, anellini, chiavette.
Le origini della festa risalgono al paganesimo e affondano le radici in un'antica celebrazione in onore di Angitia, la divinità serpente, animale simbolo della ciclicità delle stagioni, dell'infinito, del rinnovamento, dell'Uroboros che non ha inizio e fine. Da "anguis"= serpente, la dea è Angitia per i Marsi, Anagtia per i Sanniti, Anaceta per i peligni.
Mentre Virgilio identifica Angizia con Medea, per Plinio i Marsi ebbero da Marso figlio di Circe il nome e l'arte de' venefici nonché quella d'incantare i serpi con la propria saliva medicavano le morsicature, e co' loro incantesimi li facevano crepare ... , maneggiavano i serpi, toglievano a questi il veleno e vendevano antidoti, cantavano versi per alleviare il mal d'amore e facevano incantesimi. lntorno al mille tali figure mitiche si incarnano nella cristianità sopravvenuta e in San Domenico, santo abate di Cocullo, che diviene il nuovo "padrone" dei serpenti.
"Angitia, figlia di Eeta, per prima scoprì le male erbe,
così dicono, e maneggiava da padrona
i veleni e traeva giù la luna dal cielo;
con le grida i fiumi tratteneva e,
chiamandole, spogliava i monti delle selve."
Silius Italicus, Punicae (libro VIII, 495-501)
Antichissimo è il gioco di "a'ngizie" simile ad un rituale per invocare protezione per sé e per i propri cari, contro i temporali, praticato un tempo dai bambini nella Marsica, area famosa nell'antichità per il culto dei serpenti.
Un bambino, tra gli altri che rimangono in silenzio e con gli occhi chiusi, scava una piccola buca nel terreno, vi depone un pezzetto di pane ricoprendolo con pietruzze ed infine con un po' di terra; vi depone sopra una croce fatta con due bastoncini e dice agli altri "fatte!"(fatto!), gli altri guardano ed approvano, poi uno di loro, su invito del capo, si porta nel mezzo e con il mignolo della mano destra disegna un cerchio intorno alla croce e torna vicino al capo.
A questo punto del gioco il più piccolo del gruppo grida "ai circhie"(al cerchio) e tutti, dopo aver spazzato per terra, disegnano prima due cerchi concentrici del raggio di cinque o sei metri e poi quattro serpentelli disposti secondo i quattro punti cardinali, posti tra i cerchi, nella corona circolare.
Qui i ragazzi si dispongono in fila e prima con passo cadenzato, poi correndo via via più velocemente, calpestano i serpentelli dicendo: "'ngizie vè, vè, 'ngizie" (Angizia viene, viene Angizia); il capo conta ad alta voce il numero dei giri fino ad un massimo di sette, i ragazzi si fermano e il capo, posizionandosi al centro, recita: "Fulmene j saiette, da casa mè lundane, Jete pi munne strane, addò le male ne mputète fa". (Fulmini e saette, lontani dalla mia casa andate per il mondo strano dove non potete fare del male) I ragazzi in coro dicono: "A quiste sande loche, ne 'mpozza cascà ni fulmene ni foche". (in questo santo luogo non possa cadere nè fulmine nè fuoco) Il capo continua dicendo: "Tòne che scuraggète, fulmene ch'acchiappète, rànnele che tembèste, ne 'mpuzzète guastà la nostra sanda fèste. Sole che ride, jerve ch'addore, purtète la luce 'mmezz'a j core". (Tuoni che scoraggiate, fulmini che prendete, grandine che tempesta, non possiate guastare la nostra santa festa, sole che ride, erba che profuma, portate la luce in mezzo al coro) A questo punto i ragazzi ripetono: "A quiste sande loche, ne 'mpozza cascà ni fulmene ni foche". (in questo luogo santo non possa cadere nè fulmine, nè fuoco) Alla fine tutti danno le spalle al capo, posizionato al centro del cerchio, e sputano lontano.
Poi , ad un suo cenno, riprendono a girare a spirale, in giri sempre più stretti, fino ad uscire in fila per posizionarsi ad una certa distanza e, sempre ad un suo cenno, dopo un corale grido, tutti si gettano sulla buca precedentemente scavata, per assicurarsi l'auspicata protezione dai fulmini.
Sul gioco/rituale dei bimbi di Ortucchio, si stendeva il mito della dea Angizia e il suo Santuario, il Lucus Angitiae sulle rive occidentali del lago Fucino, abitato ininterrottamente dall'età del ferro fino al medioevo circondato dal Bosco Sacro dedicato alla dea, identificata come la figlia di Eete e sorella della maga Circe e di Medea. Esperta nella preparazione di medicine e pozioni magiche, Angizia insegnò a maghi e sacerdoti l'arte di riconoscere e manipolare le erbe curative, di incantare e soffocare (angere) i serpenti con canti magici. Il suo simbolo sembra essere la "chimera funeraria" raffigurata nei dischi corazza di produzione fucense.
Testo liberamente tratto da Credenze, usi e costumi abruzzesi, di G. Finamore